Non c’è due senza tre

Sarà capitato a tutti di avere un amico, che per comodità chiameremo Freddy, che all’improvviso si fidanza (con una pischella che per comodità chiameremo Alice, ma letto all’inglese, Elis) e sparisce completamente dalla circolazione; a questo punto qualcuno commenterà che i due ‘sono entrati in simbiosi’, perché non si staccano mai e bastano l’uno all’altra. Oppure a qualcuno potrebbe anche essere capitato di passare la domenica pomeriggio ‘in simbiosi con il divano’ (tipo a me ieri).
Al di là delle personificazioni, la natura ci offre una carrellata molto eterogenea di casi di “simbiosi”; e sono i licheni, quegli organismi che incrostano le rocce o che pendono in fili verdognoli e grigiastri dagli alberi nei boschi di montagna, che vengono sempre portati come esempio per eccellenza di questo fenomeno.
Ebbene, cos’è dunque la simbiosi? In ecologia si definisce con questo termine una interazione biologica stretta e duratura tra due (o più) organismi differenti che traggono un qualche tipo di beneficio dalla simbiosi stessa.

Cosa sono quindi i licheni? Possiamo definirli come organismi il cui corpo vegetativo (chiamato tallo) è costituito dalla stretta interazione di due diverse entità: un fungo, che viene chiamato “micobionte” (partner fungino), e un’alga, che viene chiamata “fotobionte” (partner fotosintetico). A seconda dei casi, l’alga può essere un’alga verde propriamente detta oppure un cianobatterio (in passato i cianobatteri erano detti alghe azzurre).
La simbiosi di alga e fungo all’interno del tallo lichenico è da molti considerata ‘sbilanciata’, nel senso che i due organismi non traggono esattamente lo stesso beneficio reciproco, ma non è il caso di dilungarsi sulla diatriba in questa sede, dal momento che lo scopo dell’articolo è ben altro. Resta però da sottolineare che la simbiosi è obbligata per il micobionte, mentre è facoltativa per il fotobionte; traducendo: il fungo non può svilupparsi se non è presente l’alga, e forma così obbligatoriamente un lichene, mentre invece le stesse specie di alghe che si trovano all’interno dei licheni si possono trovare anche a vita libera. Per questa ragione, la nomenclatura e la tassonomia dei licheni sono sostanzialmente quelle del fungo. Ovviamente uno specifico fungo forma un lichene ben preciso solo ed esclusivamente con una specifica alga, non si possono combinare a casaccio.

La duplice natura dei licheni è stata fino ad oggi un dato di fatto, ma non è sempre stato così. Dagli albori della botanica fino al XIX secolo, i licheni venivano infatti considerati semplicemente delle piante inferiori e raggruppati tra le cosiddette “crittogame” insieme a funghi, muschi, myxomiceti & co. Niente di speciale, insomma, tranne forse che per i primi lichenologi della storia, che proprio in quel secolo iniziarono a sviluppare la lichenologia come campo a sè stante [1].
La grande intuizione della ‘doppia personalità’ dei licheni si deve al botanico svizzero Simon Schwendener (1829-1919), che il 10 settembre 1867 presentò la sua grande scoperta (che, come spesso accade, all’inizio venne rigettata dalla maggioranza dei colleghi) alla riunione annuale della Società Svizzera di Scienze Naturali [2]. Schwendener aveva notato che quei corpuscoli fotosintetici che si trovano all’interno dei licheni, che all’epoca venivano chiamati “gonidi”, altro non erano se non delle alghe unicellulari, le quali, vivendo in stretto contatto con le ife del fungo (le ife sono i filamenti che costituiscono il corpo vegetativo dei funghi) all’interno del tallo lichenico, subivano modificazioni morfologiche tali da apparire diverse da alghe della stessa specie viventi a vita libera. È in memoria di quell’antico termine che ancora oggi la porzione del tallo in cui si trovano le alghe viene detta “strato gonidiale”.

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Simon Schwendener (fonte: Wikipedia)

Per centocinquant’anni siamo quindi stati placidamente convinti che questa stretta simbiosi fosse tra UN fungo e UNA alga (ci hanno persino scritto delle canzoni, naturalmente in stile country, in cui guarda caso ritroviamo i due amici citati in apertura).
Per ora l’alga (o il cianobatterio) è ancora una sola, ma il fungo a quanto pare…no! La scoperta pubblicata a fine luglio su Science [3] riporta infatti i risultati di uno studio condotto su ben 52 generi di licheni distribuiti praticamente in tutto il mondo che ha portato ad individuare un ‘terzo incomodo’ regolarmente presente all’interno dei talli lichenici. Si tratta di un lievito basidiomicete [4], o meglio di diverse specie di lieviti basidiomiceti (specifici per ogni specie di lichene in cui sono presenti), che si trovano all’interno del “cortex”, cioè lo strato compatto di ife più esterno del tallo. Lo studio genetico di questi lieviti ha consentito di stabilire che la loro presenza all’interno della simbiosi lichenica è antichissima, e che pertanto si sono coevoluti insieme. Per di più, si tratta di un gruppo di basidiomiceti dei quali non solo nessuno si aspettava la presenza all’interno dei licheni, ma che proprio erano ancora sconosciuti alla Scienza!

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Sezione schematica del tallo di un lichene con alghe verdi come fotobionti.
Il primo strato in alto (a) è il “cortex superiore”, la parte più esterna del tallo; è all’interno del cortex che sono stati individuati i lieviti basidiomiceti descritti nello studio citato prima.
Le alghe unicellulari, che il fungo trattiene grazie ad apposite strutture denominate austori che si trovano sulle ife, si trovano invece nello strato appena sotto, lo “strato gonidiale” (b).

In un certo senso erano già noti da tempo licheni ‘tripartiti’.
In alcune specie che hanno come fotobionte un’alga verde sono infatti presenti delle strutture chiamate “cefalodi” in cui si trovano dei cianobatteri. La presenza dei cianobatteri può infatti fare molto comodo al lichene perché, oltre ad essere capaci di fotosintesi, essi sono anche in grado di fissare l’azoto atmosferico; e l’azoto è un elemento importante per diversi processi fisiologici. In questi casi non si tratta però di una interazione paragonabile a quella di nuova scoperta: i cianobatteri sono dopotutto relegati nei cefalodi, in posizioni ben definite dalle quali non se ne vanno a spasso in giro per il resto del tallo.

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Peltigera aphthosa, un classico esempio di lichene con cefalodi. Come denota il colore verde brillante, il fotobionte è un’alga verde; i cefalodi, nei quali si trovano confinati i cianobatteri, sono quelle strutture puntiformi di colore nero sulla superficie superiore del tallo. (fonte: Wikipedia)

Certo, neanche i basidiomiceti scoperti dagli autori della ricerca ‘se ne vanno a spasso’ per il tallo, ma comunque sono diffusamente presenti all’interno dello strato corticale, e sembrano avere il loro bel peso sulla fisiologia dell’intero lichene.
Infatti, una delle osservazioni fondamentali della ricerca ha riguardato due licheni che sono sempre stati considerati due specie differenti: Bryoria fremontii e Bryoria tortuosa. Queste due specie hanno sempre rappresentato una sorta di rompicapo per i lichenologi, dal momento che, pur essendo costituite entrambe esattamente dallo stesso micobionte e dallo stesso fotobionte, hanno caratteristiche morfologiche e chimiche molto differenti: B.tortuosa è gialla e contiene acido vulpinico, una sostanza di origine lichenica molto velenosa, mentre B.fremontii è brunastra e non contiene traccia dello stesso acido; donde la decisione di considerarle specie differenti, nonostante i due partner simbionti fossero gli stessi. L’acido vulpinico, così come tutti gli acidi lichenici [5], è sempre stato considerato come un prodotto del micobionte ‘ufficiale’. Ma questa ricerca ha mostrato che, almeno nei casi indagati, è il lievito basidiomicete a consentire la produzione degli acidi. Et voilà, come volevasi dimostrare B.tortuosa è ricchissima di lievito e produce acido vulpinico in quantità, mentre B.fremontii no.

L’importanza del ruolo di questi lieviti basidiomiceti all’interno del tallo lichenico potrebbe spiegare anche come mai gli scienziati non siano mai riusciti a riprodurre la simbiosi lichenica in laboratorio. I fotobionti, e perfino i micobionti se posti su adeguati substrati di coltura, sono ottenibili singolarmente in laboratorio, ma finora nessuno è mai riuscito a combinarli in modo da ottenere artificialmente un vero e proprio lichene.
Forse proprio questo terzo componente appena scoperto è la chiave. Ovviamente potranno confermarcelo (o smentircelo) solamente ulteriori futuri studi, ma in ogni caso questa scoperta ha un certo peso sulla nostra concezione della simbiosi lichenica (e sui trattati di botanica e lichenologia, che dovranno essere aggiornati…).

Gabriele


Note

[1] Fu un discepolo di Linneo di nome Erik Acharius (1757-1819), ancora oggi giustamente ricordato come “il padre della lichenologia”, il primo ad interessarsi sistematicamente allo studio dei licheni e, in pratica, a fondarne la disciplina, descrivendo un considerevole numero di generi e specie nuove e definendone le prime tecniche di studio specialistico.

[2] Per conoscere nei dettagli la biografia e la scoperta di Schwendener, consiglio: Honegger R., 2000, Simon Schwendener (1829-1919) and the Dual Hypothesis of Lichens, The Bryologist 103 (2): 307-313.

[3] Spribille T. et al., 2016, Basidiomycete yeasts in the cortex of ascomycete macrolichens, Science 353 (6298): 488-492.

[4] I lieviti come siamo abituati a pensarli (e come in genere ci insegnano a scuola in quei 10 minuti che vengono dedicati al regno dei Funghi alle superiori…) sono degli Ascomiceti; ma, evidentemente, esistono dei lieviti anche nel gruppo dei Basidiomiceti. Da buoni lieviti, non sono funghi pluricellulari costituiti da ife, ma sono unicellulari.

[5] Gli acidi lichenici sono acidi organici prodotti dal metabolismo dei licheni. Si tratta di un gruppo di sostanze molto varie, il cui studio spesso si rivela utile ai fini dell’identificazione delle specie licheniche che le producono.

 

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