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Non c’è due senza tre

Sarà capitato a tutti di avere un amico, che per comodità chiameremo Freddy, che all’improvviso si fidanza (con una pischella che per comodità chiameremo Alice, ma letto all’inglese, Elis) e sparisce completamente dalla circolazione; a questo punto qualcuno commenterà che i due ‘sono entrati in simbiosi’, perché non si staccano mai e bastano l’uno all’altra. Oppure a qualcuno potrebbe anche essere capitato di passare la domenica pomeriggio ‘in simbiosi con il divano’ (tipo a me ieri).
Al di là delle personificazioni, la natura ci offre una carrellata molto eterogenea di casi di “simbiosi”; e sono i licheni, quegli organismi che incrostano le rocce o che pendono in fili verdognoli e grigiastri dagli alberi nei boschi di montagna, che vengono sempre portati come esempio per eccellenza di questo fenomeno.
Ebbene, cos’è dunque la simbiosi? In ecologia si definisce con questo termine una interazione biologica stretta e duratura tra due (o più) organismi differenti che traggono un qualche tipo di beneficio dalla simbiosi stessa.

Cosa sono quindi i licheni? Possiamo definirli come organismi il cui corpo vegetativo (chiamato tallo) è costituito dalla stretta interazione di due diverse entità: un fungo, che viene chiamato “micobionte” (partner fungino), e un’alga, che viene chiamata “fotobionte” (partner fotosintetico). A seconda dei casi, l’alga può essere un’alga verde propriamente detta oppure un cianobatterio (in passato i cianobatteri erano detti alghe azzurre).
La simbiosi di alga e fungo all’interno del tallo lichenico è da molti considerata ‘sbilanciata’, nel senso che i due organismi non traggono esattamente lo stesso beneficio reciproco, ma non è il caso di dilungarsi sulla diatriba in questa sede, dal momento che lo scopo dell’articolo è ben altro. Resta però da sottolineare che la simbiosi è obbligata per il micobionte, mentre è facoltativa per il fotobionte; traducendo: il fungo non può svilupparsi se non è presente l’alga, e forma così obbligatoriamente un lichene, mentre invece le stesse specie di alghe che si trovano all’interno dei licheni si possono trovare anche a vita libera. Per questa ragione, la nomenclatura e la tassonomia dei licheni sono sostanzialmente quelle del fungo. Ovviamente uno specifico fungo forma un lichene ben preciso solo ed esclusivamente con una specifica alga, non si possono combinare a casaccio.

La duplice natura dei licheni è stata fino ad oggi un dato di fatto, ma non è sempre stato così. Dagli albori della botanica fino al XIX secolo, i licheni venivano infatti considerati semplicemente delle piante inferiori e raggruppati tra le cosiddette “crittogame” insieme a funghi, muschi, myxomiceti & co. Niente di speciale, insomma, tranne forse che per i primi lichenologi della storia, che proprio in quel secolo iniziarono a sviluppare la lichenologia come campo a sè stante [1].
La grande intuizione della ‘doppia personalità’ dei licheni si deve al botanico svizzero Simon Schwendener (1829-1919), che il 10 settembre 1867 presentò la sua grande scoperta (che, come spesso accade, all’inizio venne rigettata dalla maggioranza dei colleghi) alla riunione annuale della Società Svizzera di Scienze Naturali [2]. Schwendener aveva notato che quei corpuscoli fotosintetici che si trovano all’interno dei licheni, che all’epoca venivano chiamati “gonidi”, altro non erano se non delle alghe unicellulari, le quali, vivendo in stretto contatto con le ife del fungo (le ife sono i filamenti che costituiscono il corpo vegetativo dei funghi) all’interno del tallo lichenico, subivano modificazioni morfologiche tali da apparire diverse da alghe della stessa specie viventi a vita libera. È in memoria di quell’antico termine che ancora oggi la porzione del tallo in cui si trovano le alghe viene detta “strato gonidiale”.

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Simon Schwendener (fonte: Wikipedia)

Per centocinquant’anni siamo quindi stati placidamente convinti che questa stretta simbiosi fosse tra UN fungo e UNA alga (ci hanno persino scritto delle canzoni, naturalmente in stile country, in cui guarda caso ritroviamo i due amici citati in apertura).
Per ora l’alga (o il cianobatterio) è ancora una sola, ma il fungo a quanto pare…no! La scoperta pubblicata a fine luglio su Science [3] riporta infatti i risultati di uno studio condotto su ben 52 generi di licheni distribuiti praticamente in tutto il mondo che ha portato ad individuare un ‘terzo incomodo’ regolarmente presente all’interno dei talli lichenici. Si tratta di un lievito basidiomicete [4], o meglio di diverse specie di lieviti basidiomiceti (specifici per ogni specie di lichene in cui sono presenti), che si trovano all’interno del “cortex”, cioè lo strato compatto di ife più esterno del tallo. Lo studio genetico di questi lieviti ha consentito di stabilire che la loro presenza all’interno della simbiosi lichenica è antichissima, e che pertanto si sono coevoluti insieme. Per di più, si tratta di un gruppo di basidiomiceti dei quali non solo nessuno si aspettava la presenza all’interno dei licheni, ma che proprio erano ancora sconosciuti alla Scienza!

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Sezione schematica del tallo di un lichene con alghe verdi come fotobionti.
Il primo strato in alto (a) è il “cortex superiore”, la parte più esterna del tallo; è all’interno del cortex che sono stati individuati i lieviti basidiomiceti descritti nello studio citato prima.
Le alghe unicellulari, che il fungo trattiene grazie ad apposite strutture denominate austori che si trovano sulle ife, si trovano invece nello strato appena sotto, lo “strato gonidiale” (b).

In un certo senso erano già noti da tempo licheni ‘tripartiti’.
In alcune specie che hanno come fotobionte un’alga verde sono infatti presenti delle strutture chiamate “cefalodi” in cui si trovano dei cianobatteri. La presenza dei cianobatteri può infatti fare molto comodo al lichene perché, oltre ad essere capaci di fotosintesi, essi sono anche in grado di fissare l’azoto atmosferico; e l’azoto è un elemento importante per diversi processi fisiologici. In questi casi non si tratta però di una interazione paragonabile a quella di nuova scoperta: i cianobatteri sono dopotutto relegati nei cefalodi, in posizioni ben definite dalle quali non se ne vanno a spasso in giro per il resto del tallo.

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Peltigera aphthosa, un classico esempio di lichene con cefalodi. Come denota il colore verde brillante, il fotobionte è un’alga verde; i cefalodi, nei quali si trovano confinati i cianobatteri, sono quelle strutture puntiformi di colore nero sulla superficie superiore del tallo. (fonte: Wikipedia)

Certo, neanche i basidiomiceti scoperti dagli autori della ricerca ‘se ne vanno a spasso’ per il tallo, ma comunque sono diffusamente presenti all’interno dello strato corticale, e sembrano avere il loro bel peso sulla fisiologia dell’intero lichene.
Infatti, una delle osservazioni fondamentali della ricerca ha riguardato due licheni che sono sempre stati considerati due specie differenti: Bryoria fremontii e Bryoria tortuosa. Queste due specie hanno sempre rappresentato una sorta di rompicapo per i lichenologi, dal momento che, pur essendo costituite entrambe esattamente dallo stesso micobionte e dallo stesso fotobionte, hanno caratteristiche morfologiche e chimiche molto differenti: B.tortuosa è gialla e contiene acido vulpinico, una sostanza di origine lichenica molto velenosa, mentre B.fremontii è brunastra e non contiene traccia dello stesso acido; donde la decisione di considerarle specie differenti, nonostante i due partner simbionti fossero gli stessi. L’acido vulpinico, così come tutti gli acidi lichenici [5], è sempre stato considerato come un prodotto del micobionte ‘ufficiale’. Ma questa ricerca ha mostrato che, almeno nei casi indagati, è il lievito basidiomicete a consentire la produzione degli acidi. Et voilà, come volevasi dimostrare B.tortuosa è ricchissima di lievito e produce acido vulpinico in quantità, mentre B.fremontii no.

L’importanza del ruolo di questi lieviti basidiomiceti all’interno del tallo lichenico potrebbe spiegare anche come mai gli scienziati non siano mai riusciti a riprodurre la simbiosi lichenica in laboratorio. I fotobionti, e perfino i micobionti se posti su adeguati substrati di coltura, sono ottenibili singolarmente in laboratorio, ma finora nessuno è mai riuscito a combinarli in modo da ottenere artificialmente un vero e proprio lichene.
Forse proprio questo terzo componente appena scoperto è la chiave. Ovviamente potranno confermarcelo (o smentircelo) solamente ulteriori futuri studi, ma in ogni caso questa scoperta ha un certo peso sulla nostra concezione della simbiosi lichenica (e sui trattati di botanica e lichenologia, che dovranno essere aggiornati…).

Gabriele


Note

[1] Fu un discepolo di Linneo di nome Erik Acharius (1757-1819), ancora oggi giustamente ricordato come “il padre della lichenologia”, il primo ad interessarsi sistematicamente allo studio dei licheni e, in pratica, a fondarne la disciplina, descrivendo un considerevole numero di generi e specie nuove e definendone le prime tecniche di studio specialistico.

[2] Per conoscere nei dettagli la biografia e la scoperta di Schwendener, consiglio: Honegger R., 2000, Simon Schwendener (1829-1919) and the Dual Hypothesis of Lichens, The Bryologist 103 (2): 307-313.

[3] Spribille T. et al., 2016, Basidiomycete yeasts in the cortex of ascomycete macrolichens, Science 353 (6298): 488-492.

[4] I lieviti come siamo abituati a pensarli (e come in genere ci insegnano a scuola in quei 10 minuti che vengono dedicati al regno dei Funghi alle superiori…) sono degli Ascomiceti; ma, evidentemente, esistono dei lieviti anche nel gruppo dei Basidiomiceti. Da buoni lieviti, non sono funghi pluricellulari costituiti da ife, ma sono unicellulari.

[5] Gli acidi lichenici sono acidi organici prodotti dal metabolismo dei licheni. Si tratta di un gruppo di sostanze molto varie, il cui studio spesso si rivela utile ai fini dell’identificazione delle specie licheniche che le producono.

 

Libertini e puritane nella storia della Scienza – parte II

Tra gli occhiolini maliziosi che naturalisti un po’ troppo disinvolti in fatto di linguaggio ambiguo hanno sparso qua e là nella nomenclatura delle specie, uno dei più azzeccati, per lo meno se si ragiona nella comune ottica eccessivamente antropocentrica, è senza dubbio il nome dato al Phallus impudicus, un fungo dalla forma che più fallica non si può. Nella puntata precedente abbiamo visto una carrellata dei “libertini” citati nella prima parte del titolo, ma non abbiamo ancora detto nulla sulle puritane…

Proprio il Phallus impudicus ci traghetta, in modo assai singolare, all’altra faccia della dicotomia del titolo, ovverosia le puritane, anzi, la puritana, poiché intendo raccontarvi di una in particolare.

Si tratta della vittorianissima Henrietta Darwin detta Etty (1843-1927), terza figlia – ma la maggiore tra quelli sopravvissuti fino all’età adulta – di un certo Charles che mi pare sia abbastanza conosciuto nel mondo scientifico, nonché bisnipote di un certo Erasmus che fu, tra le altre cose, un noto libertino (e lui per davvero, non in senso lato come i naturalisti che abbiamo conosciuto nella scorsa puntata). Che cos’hanno a che fare l’uno con l’altra un fungo dalla forma oscena e la figlia del volto barbuto più celebre della storia della Scienza?
Gwendoline “Gwen” Raverat (1885-1957), figlia di George Howard Darwin (altro figlio di Charles), descriveva in questi termini molto pittoreschi il passatempo di zia Etty: “Nei nostri boschi cresce un tipo di fungo velenoso chiamato popolarmente “corno puzzolente” (benché in latino porti un nome più grossolano). Il nome [popolare, ndt] è giustificato dal fatto che il fungo può essere rintracciato dal solo odore, e questa era la grande trovata di zia Etty. Armata di un cestino e un bastone appuntito, ed indossando guanti e uno speciale mantello da caccia, si faceva strada annusando nel bosco, sostando qua e là, con le narici che si contraevano quando catturava una zaffata della sua preda. Quindi, con un balzo letale piombava sulla sua vittima e riponeva la sua putrida carcassa nel cestino. Al termine dello svago giornaliero, il bottino veniva portato a casa e dato alle fiamme nel più profondo segreto nel caminetto del salotto, con la porta chiusa a chiave – per salvaguardare la morale delle cameriere.” [traduzione mia; per il testo originale, v. [1]].
Abbiamo quindi una tipica borghese vittoriana che, con il nobilissimo intento di salvaguardare l’innocenza delle signorine a passeggio nei boschi (!), li epurava dalla presenza di questi funghi dall’aspetto esageratamente simile a quello di un pene umano. Che dire, un irrealistico tentativo di eradicazione di una specie fungina nei boschi inglesi di centocinquant’anni fa da parte di una signora un po’ troppo bigotta non dovrebbe destare in noi preoccupazioni di sorta, tutt’al più potrebbe farci sorridere o alzare gli occhi al cielo.

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Frontespizio dell’edizione americana del “The Descent of Man and Selection in Relation to Sex” di Charles Darwin; disponibile online: Biodiversity Heritage Library.

L’aspetto che ha avuto un suo effetto sulla storia della Scienza è però un altro. Etty infatti operò come revisore di bozze dell’opera paterna The Descent of Man and Selection in Relation to Sex (L’Origine dell’Uomo e la Selezione Sessuale), provvedendo, a quanto pare, a barrare in rosso certe espressioni forse troppo dirette per il buon gusto dell’epoca; la censura della figlia era così invasiva che Darwin, per evitare la cestinatura di alcune parti ritenute evidentemente troppo scabrose dalla morale vittoriana, fu costretto ad ammortizzarle scrivendole in latino (che Etty, come probabilmente la maggior parte del grande pubblico, non era capace di leggere, nonostante avesse comunque ricevuto una buona istruzione) [2]. C’è da dire che, anche senza le interferenze ettyane, certe parti sarebbero comunque state edulcorate, in quanto ritenute troppo esplicite per il gusto dell’epoca; addirittura, John Murray, l’editore di Darwin, tentò – senza successo, alla fine della fiera – di far rimuovere dal titolo la sconvenientissima parola “sex“.
Il tassello fondamentale di questo bizzarro (per noi) mosaico puritano, secondo Tim Birkhead [2], è che la pruderia di Etty nelle sue campagne censorie nei confronti del padre potrebbe addirittura essere la causa della mancata intuizione dell’esistenza della competizione spermatica [3] da parte del grande naturalista!

Che insegnamenti possiamo trarre dai risvolti boccacceschi del Fundamenta Testaceologiae di Linneo e dalle fisse puritane di Etty, a parte la spassosa congettura che se la seconda fosse stata a conoscenza del primo ne avrebbe probabilmente acquistato tutte le copie esistenti per poi bruciarle nel caminetto di casa insieme al raccolto giornaliero di funghi puzzolenti dalla forma fallica?

Ognuno può vedersela come vuole, ma direi sostanzialmente che non bisogna avere un atteggiamento bigotto (ma neanche immaturo, come ci ricordava la presenza dei legumi di Mendel in apertura la settimana scorsa) nell’avvicinarsi alla Scienza.

Oggi il sesso non è più un argomento tabù com’era fino ad alcuni decenni fa. Ma a prescindere da questo, l’argomento è sempre stato piuttosto centrale nella prospettiva del cittadino medio, e fin troppo spesso grossolanamente ridotto a qualcosa con cui ridere gratuitamente e stupidamente (mi pare di sentire di nuovo delle risatine all’indirizzo di Mendel), o a materia prima per imprecazioni più o meno colorite, o, al contrario, a qualcosa a cui assolutamente era sconvenientissimo anche solo accennare.
Per comprendere tutte queste sfaccettature della storia della Scienza, è necessario invece approcciarsi all’argomento in un’ottica rigorosamente scientifica. Tanto per dirne una, è impensabile fare a meno di riferimenti agli organi e alle funzioni sessuali già semplicemente per la classificazione della maggior parte delle specie esistenti, quindi figuriamoci in branche della scienza nelle quali la sessualità è attivamente presente, come lo studio del comportamento o dei meccanismi evolutivi.
Il sesso è effettivamente una questione centrale e prioritaria nella biologia in generale, non solo nella giornata-tipo dell’adolescente medio.

Chiarito questo, però, anche certi eccessi non sono consigliabili. Una mentalità più aperta rispetto al passato non deve implicare l’accettazione passiva della volgarità più-o-meno-gratuita: senza voler essere troppo censori, la forzata metafora della conchiglia di Linneo è di pessimo gusto anche nei tempi molto disinvolti nei quali viviamo noi oggi.
La Scienza è Scienza anche quando si semplifica cercando di avvicinarsi ai ‘non addetti ai lavori’, e un lessico grossolano – peggio ancora se ufficializzato – non è certo un buon biglietto da visita.

Gabriele


Note

[1] Il testo originale recita: “In our native woods there grows a kind of toadstool called in the vernacular The Stinkhorn (though in Latin it bears a grosser name). The name is justified for the fungus can be hunted by scent alone, and this was Aunt Etty’s great invention. Armed with a basket and a pointed stick, and wearing a special hunting cloak and gloves, she would sniff her way through the wood, pausing here and there, her nostrils twitching when she caught a whiff of her prey. Then with a deadly pounce she would fall upon her victim and poke his putrid carcass into her basket. At the end of the day’s sport the catch was brought back and burnt in the deepest secrecy on the drawing room fire with the door locked–because of the morals of the maids.
Da: G. Raverat, 1952, Period Piece: a Cambridge childhood, Faber, London.

[2] T. Birkhead, 2009, Sex and sensibility, in “Times Higher Education Supplement” del 5 febbraio 2009.

[3] Si definisce “competizione spermatica” quella serie molto varia di meccanismi di selezione sessuale che avvengono dopo la copula. Anche questo aspetto molto interessante dell’evoluzionismo credo che prima o poi verrà approfondito sul blog, perciò, se v’interessa, abbiate pazienza e continuate a seguirci!

Micologia natalizia

Quando gli animali mostrano dei comportamenti simili a quelli umani, fanno subito notizia. Forse non tanto perchè così li sentiamo più vicini, ma piuttosto perchè alcuni trovano in questi comportamenti delle giustificazioni a dei comportamenti umani che non sono poi tanto apprezzati dai più. [1]
Negli ultimi anni abbiamo di conseguenza assistito ad una pletora di report su animali ‘ubriaconi’ e ‘drogati’, rappresentati di volta in volta da trafiletti su quotidiani online, magari corredati da video soggettivamente divertenti dell’animale di turno che barcolla o sbatte la testa dappertutto dopo aver ‘alzato il gomito’. Tipicamente, in natura gli animali finiscono con l’inebriarsi ingerendo frutta fermentata o funghi allucinogeni, ed è ormai consolidata la convinzione che questi avvenimenti non siano per nulla casuali, ma, anzi, intenzionalmente ricercati da animali che sanno benissimo a cosa vanno incontro (e che evidentemente lo apprezzano).

Ma andiamo con ordine; perchè in realtà qui non si parla solo di funghi, ma anche di renne.
Fin troppo spesso, ahinoi, le ‘renne’ che si vedono nelle sempre più pacchiane decorazioni natalizie che inflazionano centri cittadini e supermercati sono in realtà bizzarre chimere con snellezza di capriolo e palchi di cervo; la vera renna, un po’ più tozza per quanto dall’aria ugualmente simpatica, è un po’ meno aggraziata rispetto ad un bambi con dei sottili rametti incollati sulla testa.
Le vere renne, ben lungi dal trainare slitte volanti al comando di un bonario panzone e di una conspecifica dal naso a lanterna, in questo periodo dell’anno, per sopravvivere tra i rigori della tundra e della taiga, sono costrette ad accontentarsi di cibi meno sostanziosi rispetto alle erbe che ruminano nella bella stagione. Il loro imprescindibile foraggio invernale è rappresentato dai licheni terricoli, in particolare da quelli conosciuti come – resterete sorpresi – “licheni delle renne”.
Ma non s’era detto che avremmo parlato di funghi?
Di fatto possiamo legittimamente considerare i licheni come funghi, dal momento che un lichene non è altro che un fungo che contiene un certo numero di cellule di una determinata specie algale [2].

Siamo talmente abituati a pensare ai licheni come a delle cosucce insignificanti che incrostano i muri e i tronchi degli alberi che forse non riusciamo a materializzare l’idea che le sconfinate lande della tundra e il sottobosco della taiga siano praticamente tappezzati di questi organismi, come di fatto è; ma in realtà non è un pensiero così fuori dalla nostra portata, come potremmo facilmente constatare con una passeggiata in alta montagna.
Il punto è che se l’economia delle popolazioni che campano allevando renne si basa per l’appunto su questi animali, per la cui sopravvivenza è cruciale la disponibilità di cibo nella stagione invernale, il risultato del ragionamento è che i licheni di fatto sono il pilastro portante di questo sistema economico, per quanto circoscritto esso sia. Non sono poi così insignificanti, quindi. [2]

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Licheni delle renne (in questo caso della specie Cladonia stellaris)
(fonte: Wikipedia)

Quelli lichenizzati non sono comunque gli unici funghi che la gente associa alle renne; anzi, a ben vedere, ben altri funghi sono molto più spesso associati a questi animali, almeno ultimamente – ed eccoci tornati all’argomento iniziale dell’articolo.

Si tratta dei funghi psicotropi (il termine tecnico per definire quei funghi più popolarmente noti come allucinogeni), ovvero, come avrete sicuramente dedotto dall’inciso tra parentesi, quei funghi che contengono sostanze in grado di regalare a chi li mangia dei cosiddetti ‘trip mentali’ ricchi di allucinazioni, differenti ovviamente a seconda del tipo di sostanza prodotta dal fungo.

Cosa c’entrano i funghi allucinogeni con le renne?
A quanto pare, c’entrano un sacco: sembra che le renne apprezzino la consumazione della celebre Amanita muscaria, il ‘fungo velenoso’ per antonomasia, che, in realtà, è più allucinogeno che velenoso, come gli antichi sciamani della Scandinavia e della Siberia sapevano molto bene [3].
Curiosamente, non mi è stato possibile rintracciare alcun lavoro strettamente scientifico [con un taglio sperimentale e pubblicato su una rivista internazionale e soggetta a peer-review] in cui venga descritta l’osservazione diretta di questo comportamento, che è però riportato, tra le altre fonti, in una rassegna di ‘animali che si drogano’ [4], secondo cui le renne, ghiotte di A.muscaria, andrebbero letteralmente alla ricerca del fungo per, passatemi il termine, ‘sballarsi’. Pare che fra quelle popolazioni siberiane che vivevano a stretto contatto con le renne fosse una pratica consolidata per raggiungere quest’effetto, oltre all’ingestione del fungo stesso, anche quella dell’urina delle renne che se ne erano cibate: nell’urina, infatti, il principio allucinogeno era ancora presente, e al contempo si evitavano i rischi connessi all’ingestione di un fungo comunque velenoso. Disgustoso forse, ma indubbiamente astuto; al punto che sembra che addirittura le stesse renne arrivino a bere l’urina delle conspecifiche ‘sballate’, e che l’usanza da parte degli uomini sia nata proprio osservando il comportamento di questi animali.

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Amanita muscaria
(fonte: Wikipedia)

Riferimenti alle renne e alle Amanite allucinogene che si dice esse amino così tanto sbucano un po’ da tutte le parti, sotto Natale: A.muscaria è un elemento che compare spesso nelle cartoline di auguri o come decorazione per le ghirlande e gli alberi di Natale. Addirittura, il mito di Babbo Natale sembra intrecciarsi per più di una caratteristica con le usanze degli sciamani (e delle renne): lo sciamano che durante un rituale scendeva dalla sommità della tenda portando i funghi nel sacco appare davvero come un antesignano del Babbo Natale che porta i doni calandosi dalla cappa del camino; mentre le renne volanti potrebbero tranquillamente essere il prodotto di un ‘trip‘ da funghetti, considerando poi anche che le renne sotto l’effetto dei funghi tendono a muoversi in modo scoordinato e a balzare in lungo e in largo [3,4]. Anche se non si può escludere che questa concezione possa essere stata un po’ esasperata dai suoi sostenitori per far quadrare forzatamente i conti [5].

A questo punto vien quasi da pensare che il naso rosso di Rudolph [6] possa essere…una cappella di Amanita muscaria!

Gabriele


Buone Feste da tutto lo staff del Platypo


Note

[1] Attenzione, non intendo certo dire che sia corretto o sensato giustificare comportamenti umani sulla base del fatto che comportamenti simili si ravvisano tra gli animali, anche perché personalmente credo che non lo sia; e non perchè gli animali siano ‘inferiori’, ma semplicemente perchè ogni comportamento va correttamente contestualizzato nella biologia e nell’ecologia della specie in cui si manifesta. Il fatto è che, nonostante questo, tanta gente lo fa lo stesso.

[2] In merito alla natura della simbiosi lichenica e all’importanza economica dei licheni delle renne, rimando a questa sintesi.

[3] Qualche fonte online si può trovare qui, qui, qui. In quanto naturalista, e non antropologo, non mi posso assumere responsabilità di alcun genere riguardo alla veridicità delle informazioni riportate.

[4] G. Samorini, 2013, Animali che si drogano, ShaKe Editore, 174 pp.

[5] A sostegno ultimo della correlazione tra le due cose, molti invocano il pattern cromatico dell’abito da lavoro di Babbo Natale, rosso con bordature bianche, che richiamerebbe direttamente ed intenzionalmente il pattern della cappella di A.muscaria, rossa con punteggiature bianche. Peccato che il look con cui l’Occidente conosce Babbo Natale non sia derivato dalla tradizione, bensì da una poesiola di uno scrittore newyorkese dell’Ottocento (e non dalla pubblicità della Coca Cola, come alcuni credono); nell’iconografia dei simpatici vecchietti natalizi tutto quel rosso non s’era mai visto prima, dal momento che lo Spirito del Natale portava un mantello verde e Sinterklaas (San Nicola) era austeramente vestito da vescovo, con tanto di mitria e pastorale. Come spesso accade, è comunque possibile che il risultato finale sia una sintesi di elementi derivati da più tradizioni.

[6] Rudolph è la renna dal naso rosso e luminoso che sta in testa al tiro a 9 della slitta di Babbo Natale, illuminando la via a tutte le altre.